Prima di partire tutti per le meritate vacanze, una riflessione a cura dello Studio Marinari sul limite che c'è tra l'atto osceno e il naturale senso del riserbo e su come questo sia cambiato nel tempo.
L'articolo 527 C.p. recita: “Chiunque, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti osceni è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 30.000. Si applica la pena della reclusione da quattro mesi a quattro anni e sei mesi se il fatto è commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano.”
Gli atti osceni sono definiti dalla giurisprudenza come quegli atti che violano, turbano o feriscono il naturale senso del riserbo, riferiti a fatti o manifestazioni che riguardano la sfera sessuale. La domanda che ci poniamo è: come è la cambiata la sensibilità pubblica in riferimento a determinati comportamenti ritenuti all’epoca della redazione del Codice penale come atti osceni?
Nel 1964 nasce il topless, battezzato dallo stilista californiano Rudi Gernreich, suo ideatore, “monokini”, che nella sua versione originale era composto da un paio di mutandine sostenute da due bretelline.
Nel 1969 la Cassazione si pronunciava stabilendo che integrava gli estremi dell’articolo 726 c.p., titolato ”Atti contrari alla pubblica decenza. Turpilooquio”, «la palpazione degli organi genitali in luogo pubblico come gesto di scongiuro, giacché l'atto è contrario alle regole e al sentimento di compostezza verso i consociati». Nel 1969, dunque, il gesto apotropaico era - secondo la Suprema Corte - lesivo del pudore dei cittadini.
Più o meno negli stessi anni – era il 1967 - veniva lanciata la moda della tintarella a seno nudo: siamo a Saint Tropez, quando Brigitte Bardot veniva fotografata a prendere il solo a seno nudo. Gli interventi della Corte Suprema, sul tema, sono stati numerosi.
Nel 1978 la Cassazione si pronuncia per la prima volta sul “nudismo” sentenziando che «la nudità integrale non può apparire discreta, appunto perché consapevolmente illimitata e volutamente estesa fino all'estremo, ed integra un comportamento tipicamente inverecondo. La mancanza di gesti lubrichi e di movenze lascive, che esaltino la sessualità, può tutt'al più escludere l'oscenità, ma non anche la sconvenienza della esposizione alla pubblica vista dei genitali e delle parti vergognose del corpo. Ed è certo che l'integrale nudità dei corpi, specialmente se realizzata in località aperta al pubblico ed affollata da adolescenti, viola il principio di costumatezza garantito dalla Costituzione ed assistito dalla sanzione penale».
Nel 1980 la Cassazione stabilisce,invece, che “non integra gli estremi del reato di atti contrari alla pubblica decenza il comportamento di una bagnante che, in atteggiamenti di assoluta normalità, si intrattenga, in un gruppo di vari uomini, a seno nudo a pochi metri dal bagnasciuga di una pubblica spiaggia”, sollevando così dall’accusa di “atti osceni e contrari alla pubblica decenza” una donna che aveva frequentato una pubblica spiaggia a seno nudo.
Da questo momento in poi il monokini viene sempre “assolto”. E questo in omaggio ai principi e criteri di giudizio che la Corte di Cassazione afferma e sostiene, ribadendoli anche nel 2000 con la sentenza n. 3557.
Afferma difatti la S.C.: “La linea di demarcazione tra gli atti osceni e quelli indecenti, non sempre di facile individuazione, ha fornito agli interpreti la possibilità di affermare che i primi offendono la verecondia sessuale, suscitando nell'osservatore sensazioni di ripugnanza o di desideri erotici, ma sempre comunque toccando la sfera degli interessi sessuali lato sensu, mentre i secondi ledono semplicemente quel complesso di regole etico-sociali attinenti al normale riserbo ed alla elementare costumatezza, potendo generare - se non anche disgusto - quanto meno disagio, fastidio, riprovazione. E' indispensabile, quindi, ai fini della determinazione delle categorie dell'osceno e degli atti contrari alla pubblica decenza, che il giudice individui il vero sentimento della collettività in un determinato momento, in conformità alla progressiva evoluzione del modo di pensare della maggior parte dei cittadini”.
Nella stessa sentenza la Cassazione, chiamata in via principale a pronunciarsi su di un episodio di “nudismo”, aggiunge anche che: “Per quanto concerne il "nudo integrale", oggetto del presente procedimento, ovviamente non accompagnato da atteggiamenti erotici o pruriginosi di chi lo esibisce, si osserva che esso - con riferimento al sentimento medio della comunità, ai valori correnti della coscienza sociale ed alle reazioni dell'uomo medio normale - si presta a differenti valutazioni proprio a seconda del contesto in cui si pone. E' evidente che non può considerarsi indecente, ad esempio, la nudità integrale di un modello o di un artista in un'opera teatrale o cinematografica, ovvero in un contesto scientifico o didattico, o anche di un naturista in una spiaggia riservata ai nudisti o da essi solitamente frequentata, mentre invece suscita certamente disagio, fastidio, riprovazione chi fa mostra di sé, ivi compresi gli organi genitali, in un tram, in strada, in un locale pubblico, o anche in una spiaggia frequentata da persone normalmente abbigliate”.
Anche questa estate sarà dunque compito dei nostri giudici indagare sulla “verecondia” (dal lat. verecundia ossia, nelle diverse declinazioni di quest’ultima parola: riguardo, riservatezza, discrezione, modestia, moderazione, ritegno, reverenza, rispetto, venerazione, timidezza, modestia eccessiva, vergogna, pudore, riluttanza), sulle “regole etico-sociali” e sui “valori correnti della coscienza sociale” per stabilire se l’esposizione di parti anatomiche nude dei nostri corpi, come anche l’esposizione del nostro corpo nudo nella sua interezza, sia o meno da considerarsi reato.
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