Non basta avere ragione: bisogna avere anche qualcuno che te la dia (Giulio Andreotti)
LA PROVA NEL PROCESSO CIVILE
Il processo è lo strumento che attribuisce certezza ai rapporti giuridici.
I soggetti coinvolti nel processo sono le Parti - l’attore (o il ricorrente) che avvia il processo; ed il convenuto nei confronti del quale la domanda dell’attore (o del ricorrente) è rivolta, ed il Giudice che, sentite le ragioni e le obiezioni di ciascuna delle Parti, è chiamato ad emettere sentenza.
Le Parti, persone fisiche o giuridiche che siano, si rivolgono ad un Giudice sottoponendo alla valutazione di quest’ultimo tutta una serie di fatti la cui interpretazione le vede formalmente e sostanzialmente contrapposte, portatrici di contrapposti interessi che a loro giudizio meritano una giusta considerazione. In altre parole, ci si rivolge ad un Giudice per “ottenere ragione”, quella “ragione” di cui siamo convinti e che fino all’apertura del processo nessuno ci ha ancora riconosciuta.
L’esperienza tuttavia ci insegna che raggiungere l’obiettivo che le Parti si prefiggono – ottenere la ragione - non è sempre cosa semplice.
In primo luogo, perché oggetto del processo non è l’accertamento della verità assoluta, bensì l’accertamento dei fatti storici intesi come accadimenti esterni ed anteriori rispetto al processo, accertamento che avviene con il maggiore grado di approssimazione possibile grazie alle prove che devono essere fornite dalla parti interessate in ordine all’esistenza di (solo) quei fatti che in quello specifico caso sono rilevanti per il diritto.
La raccolta degli elementi di fatto sulla cui base fondare la propria domanda è dunque un’attività essenziale, necessariamente anticipatoria rispetto all’azione processuale che si intende intraprendere.
Tuttavia, la raccolta non si deve fermare ai soli elementi di fatto che la Parte giudica rilevanti ai fini della fondatezza della sua domanda, ma deve necessariamente comprendere anche la prova della loro esistenza e di come gli stessi si sono svolti, perché è la prova l’unico strumento atto a formare il convincimento del Giudice circa i fatti di causa.
L’art. 2697 del Cod. civ., rubricato “Onere della prova”, difatti stabilisce che: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto dee provare i fatti u ci l’eccezione si fonda”.
A questa norma si aggiunge l’art. 183, comma 4, c.p.c. secondo il quale il Giudice provvede sulle richieste istruttorie avanzate dalle Parti nei tempi e nei modi consentiti dai diversi procedimenti, potendo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 209 c.p.c., dichiarare “chiusa l’assunzione quando sono eseguiti i mezzi ammessi o quando, dichiarata la decadenza di cui all’articolo precedente, non vi siano altri mezzi da assumere, oppure quando egli ravvisa superflua, per i risultati già raggiunti, ulteriore assunzione”.
Le prove si distinguono in prove precostituite ed in prove costituende.
Le prime sono quelle che si sono formate prima ed indipendentemente dal processo, come i documenti, che se introdotti nei tempi perentori previsti dal codice di procedura civile vengono acquisite e valutate solo ed esclusivamente sotto il profilo della loro rilevanza ai fini del decidere. Le seconde, invece, sono le prove orali (testimonianza, interrogatorio formale e giuramento) e le prove non orali (ispezioni, esperimenti, informazioni rese dalla pubblica amministrazione) oggetto del libero convincimento del Giudice circa la loro eventuale ammissione.
In un mondo in cui tutti noi dipendiamo dal computer e dal cellulare, in cui le conversazioni non sono più verbali, ma scritte – come, per esempio, SMS, whatsapp, e-mail - ci si deve allora chiedere a quale categoria di prova queste “comunicazioni” possono/devono essere ricondotte.
Considerato che con il progredire dei tempi, e con il fatto che i rapporti, sia quelli personali che quelli commerciali, non vengono più intrattenuti a mezzo di lettere semplici o raccomandate, l’uso della e-mail come prova nei processi sta diventando una cosa sempre più comune. E sempre più sentenze attribuiscono alla e-mail ordinaria valore di prova scritta ex art. 2712 Cod. civ., a condizione che la stessa sia confermata da altre circostanze – ad esempio, uno scambio di successivi messaggi di posta elettronica che confermano la spedizione (o la ricezione), il mittente (o il destinatario) e il contenuto; il comportamento tenuto, in conseguenza del messaggio di posta elettronica, dalle parti in causa, o le eventuali prove testimoniali - o che in assenza di quest’ultime, essa non venga disconosciuta dal suo mittente o dal suo destinatario.
Il disconoscimento idoneo a fare perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato, esplicito e tempestivo, dovendosi concretizzare nell'allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta.
Da tenere in debita considerazione è poi anche il fatto che il disconoscimento/la contestazione di una e-mail non ha gli stessi effetti previsti per la scrittura privata che se disconosciuta/contestata non potrà più essere utilizzata. Anche nel caso in cui il diretto interessato dimostrasse la non rispondenza del contenuto della e-mail disconosciuta/contestata alla realtà dei fatti, il Giudice è difatti libero di accertare che tale rispondenza esiste attraverso mezzi di prova diversi da quelli da quest’ultimo forniti, comprese le presunzioni.
Concludendo, la singola e isolata e-mail disconosciuta, o comunque contestata, in modo circostanziato, dal suo presunto mittente o dal suo presunto destinatario, in assenza di “altre circostanze” portate all’attenzione del Giudice, o da questi, in forza dei poteri che gli competono, comunque non rinvenute, non ha valore legale.
Lo stesso vale per gli SMS.
Per quanto riguarda invece le conversazioni su WhatsApp,laCorte di Cassazione e le Corti di Merito hanno stabilito che può essere attribuito ad esse valore di prova a condizione che la cancelleria del Giudice interessato del contenzioso acquisisca il dispositivo elettronico che le contiene, sottoponendolo ad una perizia tecnica d’ufficio in caso di contestazione specifica e di disconoscimento formale di tali conversazioni.
In alternativa, le Parti interessate possono produrre in giudizio le stampe degli screenshot delle conversazioni o una chiavetta USB che le contenga, il tutto corredato da una attestazione di conformità all’originale, rilasciata da pubblico ufficiale competente.
Se le conversazioni a mezzo whatsapp non vengono adeguatamente contestate/disconosciute dalla controparte, valgono per esse le stesse considerazioni sopra espresse in punto di e-mail e di SMS.
CONCLUDENDO
Noi non riflettiamo mai abbastanza su come usiamo le parole. Le parole servono per comunicare, per descrivere la realtà, per manifestare il proprio io e la propria volontà.
Una volta scritte, le parole non possono più essere cancellate ed hanno non solo molti usi, ma anche molti significati, alcuni dei quali tipicamente legali. E quando non siamo competenti, prima di entrare nel vivo di una conversazione scritta legata alla gestione dei propri diritti e dei propri interessi, possiamo scegliere di rimanere in silenzio, e di rivolgersi ad un Professionista esperto nella materia che ci aiuti a non esporci e a non pregiudicare, talvolta irrimediabilmente, la nostra posizione.
Archivio news